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531 West Avenue, NY

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Palazzo Nobile, Napoli

Un appartamento a Napoli che è la settima vita di un palazzo. E non un palazzo qualunque, ma la residenza suburbana della famiglia Orsini, che lo abitò fino alla morte della duchessa Felicia Maria nel 1647. Poi venne donato ai religiosi di Santa Maria in Portico e divenne, fino ai primi decenni dell’800, un noviziato. Con l’unità d’Italia il volto di Napoli, così come quello di molte altre città, cambiò e vennero creati interi quartieri, come il Rione Amedeo con il Parco Margherita, proprio davanti al mare. Completato nel 1876 (la data si trova sul fermaportone all’ingresso su via Crispi), il palazzo diventò un hotel sotto la gestione di Giovanni Nobile e poi dell’imprenditore svizzero Alfred Hauser. Ma le trasformazioni non si fermarono qui: il refettorio diventò, dal 1880 in poi, una sala da concerti, sede della Società del Quartetto. Poi, all’inizio del XX secolo l’intero palazzo cominciò a trasformarsi in condominio privato, ospitando però la sede della Compagnia degli Illusi e perfino due sale cinematografiche, il “Cinema Amedeo” e l’“Ambasciatori”. A differenza dei luoghi che deperiscono nel tempo senza lasciare traccia, questo, con la patina del tempo, ha acquistato fascino e si è trasformato in un’antologia vivente di memoria e cultura.

 

Una storia stratificata

Questo appartamento a Napoli di 125 metri quadrati (+ altri 60 di terrazza) ha catturato l’interesse dell’architetto Antonio Di Maro proprio per la sua storia stratificata e ricchissima. «Ma anche per la luce del sole che entra da sud», dice l’architetto, che in questo caso ha messo mano al progetto per sé e per la sua giovane famiglia. «Me ne sono innamorato. La casa era vuota, delle preesistenze rimanevano le bellissime volte a crociera del palazzo e i pavimenti in cotto siciliano originale, che abbiamo mantenuto. Ci sono appartamenti che ti conquistano all’istante. Quando l’ho visitato per la prima volta ho capito che c’era tutto quello che desideravo: una corte alberata, una pensilina dalle vetrate policrome, due piani di scale nella composta penombra di un palazzo neorinascimentale, volte a crociera, pavimenti ottocenteschi in cotto, una luce naturale così generosa da attraversare trasversalmente tutto lo spazio e una cortina estesa a servizio dell’intero appartamento», dice.

 

Segreti e scoperte

Memoria, architettura, cultura del progetto, ricordi di famiglia e sentimento sono gli ingredienti del progetto di Antonio Di Maro. «Chi vuole conoscermi veramente deve venire qui, non nel mio studio», dice. «Ci sono pezzi antichi di famiglia, la mia e quella di mia moglie, pezzi realizzati su mio disegno in modo del tutto artigianale, opere d’arte di talenti che ammiro». Ma non solo. Questa casa è anche luogo di sorprese: durante i lavori di ristrutturazione è stato scoperto un vano scavato sotto una cortina tufacea che forse in passato veniva utilizzato come deposito di vini. Una scoperta inattesa, che ha acceso l’immaginazione progettuale dell’architetto e trasformato quello spazio in una suggestiva sala da bagno. Le pareti di tufo sono state trattate e illuminate per enfatizzare la texture naturale. «Quando ho iniziato i lavori sapevo bene che il primo scoglio da affrontare sarebbe stato quello della matrice storico-artistica dell’edificio e dell’adattabilità alla domotica attraverso la tecnica del cuci e scuci. La bellezza della pavimentazione in cotto andava preservata, quella degli archi a crociera esaltata».

 

Il ritmo perfetto

Lo spazio di questo appartamento è disegnato attraverso una sequenza ritmata di archi e volumi semplici, tradotti in monoliti in ferro e policarbonato che sono il segno distintivo dell’architetto. «Il monolite parla di me, del mio approccio all’architettura d’interni, di come con una specie di arroganza mi relazioni in modo spurio con gli involucri antichi come questo. Non offro nessuna concessione al decorativismo: i pezzi che animano il mio spazio sono pensati per contenere e per assolvere funzioni. Il policarbonato può avere dignità se ben utilizzato alla stregua dei tubi di carico per le grosse condutture idrauliche delle città che utilizzo, per esempio per creare il lavandino in un bagno». In questa casa nessun oggetto è mai casuale, ma viene scelto per la sua capacità di raccontare storie, che parlano di lavoro artigianale passioni, amicizie, affetti e nascite. Come la scultura site specific realizzata da Antonella Romano, commissionata dall’architetto per celebrare la nascita della figlia Andrea, avvenuta in una notte di luna piena. Figlia della Luna è un omaggio poetico alla vita e alla continuità. La sua presenza trasforma lo spazio in un racconto intimo e universale, con una forza narrativa che dialoga con l’architettura e le emozioni di chi la abita.

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